Qualche giorno fa, a Milano, in un luogo che non svelerò, mentre stavo suonando è arrivato un agente della polizia locale, che da qui in avanti, per comodità, chiameremo vigile. Persona educata. Mi ha lasciato finire il mio brano. Mi ha fatto i complimenti. Ha premesso che non dubitava che io l’avessi, ma poi, mi ha chiesto il permesso. Premetto io che il luogo è in estrema periferia. Fortunatamente ce l’avevo. L’ho mostrato. Mi ha chiesto i documenti. Li ho mostrati. Tutto in regola. Allora gli ho chiesto: “Mi scusi, ma se non avessi avuto il permesso?” Risposta: “Avrei dovuto farle il verbale.” Poi ha cambiato discorso e mi ha detto: “Ho visto che qui la conoscono tutti, si fermano, ascoltano, le danno soldi, le chiedono, bello!” E si è allontanato. Ho ripreso. Sono rimasti un’altra mezz’ora ad ascoltare e poi se ne sono andati.
Tutti i giorni, in centro a Milano, dalle 17.00 in poi esplode una specie di delirio sonoro di “artisti con permesso” che, con amplificazioni esagerate invadono qualsiasi spazio acustico. Purtroppo, come mi dice sempre il mio socio Fabio: “le orecchie non sono come gli occhi, non si possono chiudere”, quindi spaccano i timpani, e non solo i timpani, a turisti, residenti, passanti, commercianti, professionisti, poveri e ricchi, ma pare che però piacciano a qualche gruppo di astanti, insomma, hanno un loro pubblico.
Ergo. Se tu utilizzi lo spazio pubblico in forma artistica e crei piacevoli situazioni di socialità, ma non hai il permesso il vigile ti multa, differentemente, se tu fai un gran casino, ma hai il permesso non vieni multato. Questo è il principio fondamentale su cui si basa il regolamento: la delegittimazione della libertà cosciente, ovvero quella che passa dal rispetto e dalla conoscenza della costituzione, dalla formazione dell’artista, dall’educazione all’utilizzo della cosa pubblica per creare una serie di norme che deresponsabilizzano a cascata il comune, l’assessorato di competenza, il vigile. Non sarebbe il caso di cominciare a fare qualche campagna di educazione e di eliminare qualche regolamento? Utopia.
La domanda degli ultimi anni è: “Ma come facciamo a limitare l’amplificazione? I decibel chi li misura?” Deve uscire l’ARPA (bellissimo nome, già m’immagino l’uscita dell’arpa con gli angioletti che la suonano). No. Misuriamo le distanze. I decibel si abbattono allontanandosi dalla fonte sonora. Bisogna decidere semplicemente a quale distanza io devo sentire distintamente tutto e da quale distanza io devo cominciare a percepire un abbassamento consistente del volume fino allo spegnimento. Tra l’altro questa soluzione terrebbe conto anche del rumore di fondo. Decidiamo quindi che l’abbassamento debba avvenire da 20 metri fino a 50. Perciò se ti sento in forma consistente oltre i 50 metri non è più arte di strada, è pubblico spettacolo quindi devi avere tutte le licenze che servono e ti multo perché non ce le hai. Troppo semplice? Mai sperimentato.
E, ma ci sono luoghi dove la rifrazione del suono porta a sentire più forte in un luogo più lontano che in uno più vicino. Solleva qualcuno. A questo punto però io dico: “Abbassa il volume o cambia posto, la città è grande. Non sempre e ovunque si può fare arte di strada”. Sto andando fuori tema? No. C’è che, in questi giorni a Roma, hanno multato un artista perché ha fatto uso di amplificazione. Perché a Roma hanno vietato l’USO dell’amplificazione, non l’abuso. Ci sono buone possibilità che vinca il ricorso, ma questa politica proibizionista si sta diffondendo in tutto il paese.
La strategia generale è chiudere tutti gli spazi di libertà espressiva che non siano controllati, ed è comune sia a destra che a sinistra. La tattica è non rispondere, non discutere, non dibattere e proibire. A Milano dall’ottobre del 2023, di giorno, non si può più usare alcun tipo di amplificazione sull’asse centrale che va da Piazza San Babila a Piazza Castello. A Genova è stato approvato un nuovo regolamento che proibisce l’arte di strada in tutti i luoghi dove si è sempre esercitata. A Roma hanno chiuso all’arte di strada Via del Corso, Campo de’ Fiori e Fori Imperiali.
E poi, da qualche anno, è comparsa un’altra tremenda, terribile e moderna forma di ammanettamento: l’app. L’app ti costringe a iscriverti, ad andare dove vuole lei, a geolocalizzarti, ti strumentalizza a fini consumistici, trasforma un fenomeno culturale come l’arte di strada in un banale prodotto commerciale. Poi se è abbinata anche alle colonnine attrezzate ti costringe esattamente in quei 9 metri quadri e ad usare quella strumentazione. Fine della libertà di espressione. Fine dell’utilizzo artistico dello spazio pubblico, del movimento degli artisti, della loro capacità di inventare luoghi, di riempirli di significato, di essere aspetto di aggregazione sociale, legante delle comunità, motore formativo per l’avvicinamento delle giovani generazioni alle arti performative, momento estemporaneo di cultura, ricreazione e gioia. Tutto tende all’omologazione e all’appiattimento, l’app ne è il simbolo. Però magari diventi come i Maneskin.